Il caso riguarda due coniugi che, a seguito di svariate denunce reciproche per maltrattamenti in famiglia, aveva visto l’indagato convivente della persona offesa, installare nella comune abitazione un impianto di registrazione di immagini, costituito da tre microtelecamere e una centralina di registrazione, che era stato inserito nel sistema di allarme dell'abitazione.
Il Tribunale di Roma, sezione per il riesame delle misure cautelari reali, aveva confermato il decreto del Gip con il quale era stato disposto il sequestro preventivo di tale impianto di registrazione di immagini, in quanto ritenuto sussistente il fumus commissi delicti del reato di cui all'art. 615-bis c.p., il quale, secondo il giudice, si realizza anche quando il sistema di registrazione sia stato installato da uno dei conviventi nell'abitazione, purché sia destinato a registrare atti della vita privata degli altri coabitanti in sua assenza.
Contro la decisione del Tribunale del riesame l'imputato proponeva ricorso per Cassazione. Tra i vari motivi di ricorso, la difesa dell'imputato deduceva che la registrazione era stata effettuata per una ragione lecita, ovvero raccogliere elementi di prova circa i maltrattamenti realizzati dalla moglie a danno dei figli, che le videocamere erano state collocate in ambienti comuni (come il corridoio, la sala, la cucina) e che la moglie convivente era a conoscenza dell'installazione.
La Corte sul punto ribadisce il proprio indirizzo largamente maggioritario secondo il quale neppure al convivente è consentita la registrazione di immagini della vita privata altrui, quando chi le realizza non è presente agli atti ripresi e purché non vi sia stato il consenso dei soggetti ritratti.
Infine, è ovvio che il consenso delle persone oggetto di ripresa pure esclude il delitto che presuppone per la sua consumazione il procurarsi indebitamente suoni e immagini tramite strumenti di ripresa visiva o sonora. L'assenso alla registrazione, è evidente, esclude il carattere indebito dell'attività.
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